18/10/11

ULTIMI CANTI DEL PURGATORIO

Sintesi e commento del trentaduesimo canto del Purgatorio 



Canto XXXII
Le figure femminili che simboleggiano le sette virtù invitano Dante a distogliere il suo sguardo da Beatrice per volgerlo alla processione, la quale, in questo momento, riprende a muoversi in direzione opposta rispetto a quella prima seguita; finché tutti i suoi membri si fermano intorno a un albero altissimo e spoglio di fronde. Dopo che il grifone vi ha legato il suo carro, la pianta rinasce a nuova vita, coprendosi di fiori e di foglie. Il canto dolcissimo innalzato dai personaggi del corteo provoca in Dante una specie di tramortimento, e, quando si risveglia, Matelda gli indica Beatrice che siede sotto l'albero circondata dalle sette virtù, mentre i ventiquattro seniori, il grifone e gli altri componenti del corteo risalgono al cielo. 
La seconda parte del canto è occupata dalla rappresentazione delle vicende del carro della Chiesa attraverso successive allegorie. Dante ricorda - con la figura dell'aquila - le persecuzioni portate contro i primi cristiani e con l'immagine della volpe il diffondersi delle eresie; in un secondo tempo l'aquila - simbolo dell'Impero - ritorna e lascia sul carro una parte delle sue penne, per indicare il potere temporale di cui fu investita la Chiesa dopo la donazione territoriale fatta dall'imperatore Costantino a papa Silvestro. Poi un drago, che rappresenta Satana, esce improvvisamente dalla terra e, dopo aver colpito con la coda maligna il carro, si allontana pieno di soddisfazione. L'immagine della Chiesa si trasforma infine in una figura mostruosa, dotata di sette teste e dieci corna: su di lei siede una sfrontata meretrice, a fianco della quale compare un gigante, che flagella ferocemente la donna subito dopo che questa ha volto il suo sguardo verso Dante.
Il canto termina mostrando il gigante che stacca dall'albero il carro della Chiesa per trascinarlo nella selva.
Introduzione critica
Il discorso esegetico intorno al canto XXXII potrebbe allargarsi indefinitamente, perché esso si trova di fronte, ancora una volta, al problema dei rapporti fra allegoria e storia - entrambe presenti in modo preponderante in questo canto - e a quello della loro trasformazione in termini poetici. La vastità e la complessità di una simile indagine possono, tuttavia, spiegare i risultati diversi, per non dire opposti, ai quali é pervenuta la critica. É evidente, infatti, che la sola analisi estetica, di ascendenza romantica, non possa trovare che brevi momenti di « poeticità », considerando il resto del canto una confusa e macchinosa costruzione. D'altra parte risponde ad un saggio criterio di lettura evitare una eccessiva storicizzazione del carro XXXII, giudicandolo solo una manifestazione dell'ansia di rinnovamento - in campo ecclesiastico e politico - assai diffusa ai tempi di Dante o, peggio, confinandolo al rango di una delle tante pagine visionarie delle quali il Medioevo si é mostrato fecondo. Quanto si compie nell'alta selva vota ripropone l'atmosfera gravida di tensione della selva oscura del I canto dell'Inferno, perché vi riecheggia lo stesso stimolo ad una azione vigorosa contro il peccato, lo stesso senso di attesa di fatti futuri destinati a sconvolgere il corso degli eventi, le stesse immagini di male (alla lupa che di tutte brame sembiava carca nella sua magrezza e molte genti fe' già viver grame si contrappone la volpe che «si avventa» e che d'ogni pasto buon parea digiuna), ma soprattutto perché vi si ribadisce la missione profetica dal Poeta assunta in pro del mondo che mal vive fin dalle prime battute della Commedia. "Dante non fu il primo a presentare la sua interpretazione come autentica, essendo l'appello all'autorità divina il modo naturale e normale nella civiltà medievale come ai tempi della profezia ebraica, di esprimere forti convinzioni politiche. Certo, pochissimi fra i predecessori di Dante si erano spinti fino a pretendere che una rivelazione speciale era stata loro largita, e mai prima di lui una tale pretesa era stata manifestata con altrettanta unità enciclopedica di visione e con altrettanta forza d'espressione poetica." (Auerbach)  
La trama del canto XXXII, non può non richiamare tutta la letteratura allegorica, profetica, apocalittica che fu propria del Medioevo e che trovò la sua espressione più famosa negli scritti di Gioacchino da Fiore, soprattutto nel momento in cui, di fronte alla dilagante corruzione morale della Chiesa, al venir meno di ogni ordine civile e alla mancanza di una salda guida politica, da ogni parte si invocava un rinnovamento dei costumi ecclesiastici e una rinascita del potere imperiale. Dante, dalla ricchissima simbologia del suo tempo, che investiva non solo la letteratura ortodossa e riformatrice, ma anche le figurazioni artistiche, ha scelto forse gli archetipi più rappresentativi, dai quali deriva il "carattere, oltre che drammatico, anche spiccatamente « visivo » e descrittivo di questa poesia, con cui si accorda l'idea e l'efficacia figurale, pittorica e plastica della parola, quella disposizione a fissare immagini, linee e colori, in movimento, che in questo canto XXXII s'intensifica in virtù animatrice, in vicenda di drammaticità allucinante, in rapida magia di azioni sceniche" (Grana).